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Il fedele taccuino (sempre opera di Camilla) che mi accompagna ormai da tre anni e la tessera del Bookclub

Il pretesto per raccontare finalmente questi miei quasi tre anni da ‘Bookeater’ vuole  essere il libro di cui abbiamo parlato durante l’ultimo incontro, due settimane fa, ‘Nessuno scompare davvero’ di Catherine Lacey (Ed. Big Sur).

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Sto parlando del Bookeater club creato da Camilla, anima meravigliosa dietro il blog Zelda was a writer, che di certo non ha bisogno delle mie presentazioni. Le sue idee sono incredibili, i suoi progetti meravigliosi e poetici e sono felice che la rete mi abbia portato a intrecciare il mio percorso con il suo. Mi tuffo fiduciosa in ogni sua proposta e creazione perchè so già che saranno fonte per me di felicità e che ne uscirò ogni volta più ricca e una persona migliore. Il Bookeater poi mi ha permesso di riscoprire Milano dopo qualche anno di ‘lontanza’: una Milano nuova, più bella e diversa da quella che ricordavo dagli anni universitari (che mi sembrano così terribilimente lontani!); mi ha permesso di ritagliarmi degli spazi speciali, in mezzo a persone, altrettanto speciali, che condividono il mio stesso amore per i libri, la parole e le storie. Mi ha permesso di concedermi ogni tanto una piccola fuga, proprio come la intendiamo noi Mamme in fuga.  Ritrovarsi ogni mese e confrontarsi sul libro letto nel frattempo, ogni volta stimola in me pensieri ed emozioni incredibili: mi fa sognare, mi manda in crisi, fa nascere mille domande diverse. Come dicevo prima, ogni volta torno a casa migliore, più ricca e sicuramente con il desiderio di continuare a leggere per scoprire storie e mondi in cui ‘perdermi per ritrovarmi’.

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Camilla durante i festeggiamenti per il ‘compleanno’ del Bookclub

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Proprio come in ‘Nessuno scompare davvero‘, la storia di una donna americana, Elyria, che, in quella che all’inizio ci appare una vita ‘tranquilla e regolare’, un giorno come un altro decide di partire e lasciare tutto: marito, lavoro e famiglia. Un racconto particolare, la storia di una fuga su cui tutti abbiamo fantasticato prima o poi: mollare tutto, responsabilità e problemi quotidiani e partire zaino in spalla alla ricerca di ‘noi stessi’. Quindi è con grande attenzione che seguiamo il racconto di Elyria, curiosi e affascinati di scoprire cosa accadrà alla nostra protagonista una volta arrivata in Nuova Zelanda, curiosi di scoprire se questa nuova vita le permetterà di capire qualcosa in più su se stessa, di essere finalmente felice. Tutte queste domande in realtà non trovano risposta e vengono in qualche modo disattese:  per nessuna di loro c’è la soluzione che ci saremmo aspettate (o che forse avremmo voluto trovare!). ‘Nessuno scompare davvero’, proprio come recita il titolo del romanzo, perché nessuno può fuggire da se stesso, dai suoi problemi e dalle sue quotidiane contraddizioni. Nemmeno se si fugge dall’altra parte del mondo. E non possiamo certo dire che la protagonista non ci provi veramente: parte senza dire a nessuno dove sta andando, senza lasciare nessuna informazione. E, salvo qualche breve telefonata da una qualche cabina telefonica persa nel nulla, nessuno ‘a casa’, sa davvero più niente di lei. Mano a mano che prosegue nel racconto cominciamo lentamente a capire veramente chi è la nostra Elyria, o perlomeno cominciamo a capire come era la sua vita e che cosa l’ha portata fino a lì. Il libro non ci offre spiegazioni in modo ‘lineare’, non c’è un fatto o un motivo scatenante che causa questo suo desiderio e questa sua fuga: sarebbe molto più semplice. Piano piano seguiamo il flusso dei suoi pensieri e in qualche modo riusciamo a ricomporre il puzzle della sua esistenza: un padre assente, una madre alcolista, una sorella adottiva ‘piccolo genio’ suicida senza nessun motivo apparente, un marito, prof di matematica della sorella, anche lui con una madre suicida.

Insomma, di certo lentamente cominciamo a capire quello che ha vissuto e che cosa, probabilmente, l’ha accompagnata nella sua scelta estrema di fuga. Cominciamo a capire che quella che sembrava apparentemente una vita tranquilla e risolta in realtà nascondeva un profondo senso di insoddisfazione e di infelicità.

Elyria scappa, nel tentativo di cercare un senso. Il problema è che però questo ‘senso’ in realtà non esiste: sarebbe bello se fosse tutto nero e bianco, se per ogni domanda esistesse la giusta risposta, se per ogni problema esistesse una soluzione.

Elyria scappa, più che dagli altri da se stessa, da questo suo ‘bisonte riottoso’ (così come lo definisce lei) che sente agitarsi dentro, che non le permette mai di essere tranquilla veramente. Che la fa sentire di non appartenere davvero a nessuno e a nessun posto. Scappa cercando di tenere questo bisonte a bada, ma è una fuga  vana.

E alla fine la ritroviamo praticamente al punto di partenza: senza più un marito, senza più un lavoro, senza più una casa. E senza nemmeno le risposte e il senso che andava cercando.

Da questo punto di vista il libro può lasciare un po’ l’amaro in bocca, ma in realtà non avrebbe potuto avere un finale diverso e se ne accorge anche la protagonista.  Un po’ la ami e un po’ la odi ma solo perchè in tanti momenti la senti vicina e simile, nella sua imperfezione e nella sua ottusa cocciutagine nell’andare – inesorabilmente – incontro al suo destino.

” Quello che volevo era stare da sola; stare da sola non era quello che volevo. Non volevo desiderare niente; volevo desiderare tutto.

Volevo desiderare una vita normale: il solito marito, la solita casa, le solite strade, i soliti marciapiedi, i soliti rumori e così via. Ma avevo rinunciato a tutta quella roba… “

Insomma, Elyria siamo tutti noi, alla ricerca costante di un senso che ci permetta di essere felici, che ci permetta di vivere serenamente e in pace con noi stessi e il mondo. Anche se non è possibile.

Ma forse è proprio la natura di ogni essere umano quella di avere in sè questo senso costante di ricerca di ‘qualcosa’ che non riusciamo però mai a raggiungere ed ottenere, e questo ‘bisonte riottoso’ alla fine è dentro tutti noi, semplicemente c’è chi è più bravo a tenerlo a bada e ha imparato a domarlo. C’è chi invece, come Elyria, ne resta sopraffatto e alla fine non può fare altro che accettarlo, come una parte indivisibile che appartiene al suo essere più profondo.

” Scappare da qualcosa non vuol dire essere liberi, è solo un modo come un altro per fuggire”.

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